Murano e il vetro

 

Una storia trasparente

Michele Zampedri

 

Il punto di partenza dell’arte vetraria muranese può essere considerato quel documento datato 982 in cui appare come teste in un atto di donazione tale Domenico “fiolario”. Tale aggettivo indica la professione, giacché le fiole erano bottiglie di vetro soffiato caratterizzate da un corpo panciuto e un collo molto lungo.

Prima di parlare di un’arte che in qualche modo fosse ben radicata in città e fosse di qualche interesse per la Serenissima bisogna aspettare sino alla costituzione della “Mariegola”[1] del 1271, il più antico documento a noi pervenuto e rilasciato dalla magistratura della Giustizia Vecchia, al tempo competente in materia. Contemporaneamente l’Arte divenne anche Scuola, cioè sodalizio di carattere assistenziale e religioso, e deterrà il diritto di partecipare alle solennità pubbliche con il proprio gonfalone.[2]

La produzione, da testimonianze risalenti al 1280, era composta da vetri da tavola tra cui bicchieri con alla base un giro di brevi sporgenze vitree, sorta di corone o, come da linguaggio tecnico, morise, e, naturalmente, dalle fiole. Sempre negli stessi anni fanno il loro esordio i pittori di bicchieri, che li usavano ornare con dipinture a smalti.

Murano divenne la regina delle trasparenze vetrarie solo dopo la decisione del Maggior Consiglio[3] dell’8 novembre del 1291 di distruggere le fornaci da vetro in civitate vel episcopatu Rivoalti [4] permettendo la produzione vetraria nelle isole dell’estuario da cui i muranesi ne detrassero un privilegio di esclusività, stante il fatto che già esistevano nell’isola delle fornaci. Di qui a poco, a estrema protezione di questo comparto economico, su richiesta dei paroni de fornaxa, si stabiliva che coloro i quali si recavano all’estero per lavorare il vetro, non potessero tornare mai più sull’isola.[5] Il prestigio di Murano toccherà il suo apice della considerazione del Governo della Repubblica con una sua decisione del 1376 che attestava che il matrimonio di un patrizio con una figlia di un vetraio non ostacolava la trasmissione della nobiltà alla prole.[6]

Lo statuto dei vetrai del 1315 ordinava di lavorare con forni qui habet tres bocas: Pertanto il forno fusore più utilizzato era quello a tre piani. Il primo veniva utilizzato per il letto di legna che lo riscaldava e raggiungeva la temperatura grazie all’immissione di grosse quantità d’aria soffiate da potenti mantici; il secondo era usato per il contenimento dei crogioli, dove venivano immesse le materie prime per la fusione del vetro, mentre nel terzo risiedeva la muffola, forno dove venivano posti gli oggetti finiti che dovevano subire un lento trattamento per riportarli a temperatura ambiente onde evitare rotture dovute allo stress termico in caso di processo di raffreddamento troppo rapido.

Gli strumenti base che oggi si usano per lavorare il vetro sono gli stessi che si ritrovano nelle storiche incisioni presenti in tutti i musei vetrai del mondo.

I legnami più usati per la combustione erano all’inizio, gioco forza, legni prevalentemente indigeni, quali l’ontano ed il salice. Ben presto, tuttavia, la laguna veneta non potè più fornire la necessaria provvista, per cui rivolgersi alla terraferma divenne una necessità. Nel 1285 una disposizione impose l’uso del solo ontano quale legno per la combustione , anche se la parola ontano indicava genericamente tutto il legno da ardere che non fosse di uso domestico.

Le notizie sulle materie portano ad individuare come ingrediente base il vetrificante principe che era la silice, sia che fosse contenuta nelle sabbie sia che fosse estratta dai cogoli  provenienti dall’entroterra veneziano. Mentre la sabbia era caratterizzata da forti impurità ferrose, cosa che conferiva al prodotto finito una colorazione verde-azzurra, i ciottoli - in particolare quelli bianchissimi provenienti dal fiume Ticino - risultavano essere molto puri e destinati ad una produzione più raffinata. Da considerare, inoltre , che il costo di quest’ultimo era assai elevato e comportava un processo di lavorazione fatto di riscaldamenti e bruschi raffreddamenti atti a polverizzare la materia per renderla disponibile ad una più facile fusione.

La silice fonde ad una temperatura intorno ai 1700 °C; pertanto richiedendo un grado di calore eccessivamente elevato per i mezzi a disposizione del tempo si ricorse all’uso di fondenti, quali ossido di sodio o di potassio. Questi venivano ricavati dalle ceneri vegetali. La pianta più usata, il cui commercio era protetto da un editto del Maggior Consiglio del 1306, era la Salsola Kali (Il nome del genere si riferisce al suo sapore salato, quello specifico dal nome Kali = potassa riconduce al significato del nome generico e per il l’ alto contenuto di soda ( 25%) delle sue ceneri tale sostanza veniva estratta e commercializzata col nome di “soda vegetale” o “soda coltivata”). In città le ceneri sodiche erano conosciute col nome di allume catino o cenere di Soria per la sua provenienza Siriaca. Si poteva utilizzare anche la grepola (termine dialettale che indicava il deposito nelle botti di vino che veniva bruciata e lavata varie volte sino alla calcinazione) che apportava nella composizione il carbonato di potassio che conferiva lucentezza al vetro[7].

Un momento fondamentale per lo sviluppo dell’arte vetraria fu quello collegato all’invenzione del puntello: utensile usato per sostenere l’oggetto di vetro durante la lavorazione al fine di rifinirne a caldo l’estremità superiore. Questo importantissimo strumento rese possibile cominciare a pensare ad una lavorazione esclusivamente manuale, senza intervento di rifiniture a freddo, stimolando così la fantasia dei maestri vetrai che cominciarono il loro inesorabile lavoro di ricerca della bellezza dell’oggetto.

La chiave di svolta avvenne nel 1450 (cronologia Luigi Zecchin) anno nel quale Angelo Barovier cominciò ad usare materiali molto più puri quali la silice tratta dai cogoli del Tesin[8], sali di cristallo ottenuti dopo un’accurata purificazione delle ceneri per la costituzione della fritta[9] che, addizionati col manganese di Piemonte, gli facevano ottenere  le trasparenze del “cristallo” muranese, insuperato sino al XVII secolo.[10] La fortuna di questi vetri venne anche supportata dalla caduta di Damasco e il crollo della produzione siriaca, i cui prodotti di lusso si erano imposti ad occidente, e da cui Venezia aveva mutuato alcune forme. Angelo Barovier (1400 ? – 1469) era un vetraio appartenente ad una famiglia padronale muranese le cui origini risalivano ai primi anni del 1300. Il suo esordio nella vetraria lo si rinviene in una licenza del 1442 dove veniva segnalato che il figlio di Jacobo Barovier, Angelo, si staccava dal padre per aprire la propria vetreria. Sempre sui Barovier di quegli anni corre l’obbligo segnalare come in un documento podestarile del 1441 si affermi che Salvatore avesse fatto ricorso continuativamente nei precedenti tre anni all’opera di tale Elena Lando per la decorazione dei vetri della propria fornace. Tale testimonianza risulta doppiamente interessante perché ci segnala la prima presenza femminile e risulta essere il primo accenno alla pittura su vetro[11].

Angelo fu discepolo del filosofo alchimista marchigiano Paolo da Pergola, attivo a Venezia come pubblico lettore di filosofia e teologia presso la Chiesa di San Giovanni Elemosinaro. Angelo, grazie alle sue dotte lezioni, mise a punto un vero e proprio processo alchemico per ottenere le fini trasparenze del cristallo, termine che precedentemente indicava soltanto il cristallo di Rocca, ma che cominciò da quel momento a designare il nuovo tipo di vetro, tanto incolore e impuro da poter essere paragonato all’omonima pietra dura.[12]

La nuova scoperta dava la stura per un ridisegno di tutte le composizioni in quanto questa non riuscì a scalzare i vetri colorati che rimanevano peculiarità della produzione muranese, ma contribuì ad affinarne le trasparenze. Alla fine di questo percorso compare un nuovo tipo di vetro detto porcellano, meglio ora conosciuto come lattimo il quale ben si presta a riprodurre le preziose porcellane cinesi dei Ming approdate per la prima volta a Venezia nel 1442.

Con l’avvento di queste nuove tecnologie anche il gusto cominciava a raffinarsi, complice l’esplosione delle arti nell’esordio di quello che venne definito il “secolo d’oro”. Ed erano d’oro e smalti le decorazioni che dal 1469 si dispose fossero effettuate esclusivamente nelle fornaci muranesi. Per le riproduzioni si traevano fonti da una ricca “imaginerie” che il tempo proponeva riportando particolari dei grandi teleri di Antonio Vivarini, Andrea Mantegna e Carpaccio e riproducevano episodi biblici, scene processionali e di trionfi, immagini mitologiche ma anche volti di giovani uomini e donne racchiusi in medaglioni evocanti promesse solenni o celebrazioni di matrimoni come nel caso della famosa coppa Barovier[13] conservata ancor oggi nel Museo Vetrario di Murano. [14]

Più conformi al puro del cristallo che al chiaro del vetro, sì belli di garbo nel piede e nel calice, che brillano e risplendono in modo che, se mai non fusse stata la sete, la farebbero venire a fiumi correnti d’acque abbondanti, non che ai fonti secchi di tale humore in le vene”, così Pietro l’Aretino trovava certi bicchieri ricevuti in dono.[15]

Fu durante il secolo d’oro che la produzione vetraria assunse livelli eccelsi e ciò viene dimostrato dalle visite di eminenti personalità che includevano nelle loro curiosità non solo i merli architettonici di una città che si specchiava sull’acqua, ma anche le trasparenze dei vetri muranesi. Questi si arricchirono con le filigrane quando i fratelli Serena annunciarono alla Serenissima di aver elaborato, dopo lunghi studi, la tecnica di produrre il vetro a fascette con retortoli a filo e ne richiedevano il privilegio[16] per venticinque anni. I fratelli Serena proposero una variante dei retortoli in vetro che Pietro l’Aretino, molto attivo in città, aveva fatto dipingere dal pittore Giovanni da Udine ed eseguiti nelle fornaci dei due maestri muranesi,[17] la qual cosa non portò sconcerto al letterato perché questi prodotti inizialmente vennero denominati aretini de fili spessi. Un altro motivo di orgoglio era la produzione degli specchi tanto fini e graziosi nella forma che Leonardo Fioravanti, medico e alchimista bolognese, nel suo Dello specchio di scienza universale affermava che in nessun altro luogo del mondo, fino hora, è ancora stato possibile fare di tale arte in quella perfezione e bellezza.[18] Di fine vetro dell’isola si parla anche quando Galileo Galilei nel 1609 sale sul campanile di San Marco con alcuni patrizi veneziani  per mostrare loro le meraviglie et effetti singolari del cannocchiale da lui costruito con lenti di vetro muranese.

La peste del 1630 falcidiò anche la popolazione di Murano che al tempo contava 7400 persone che vivevano nell’isola e con essi morirono gran parte delle maestranze. Se contiamo, inoltre una certa difficoltà di reperimento delle materie prime, possiamo parlare di una crisi profonda che incentivò le migrazioni verso l’estero. La produzione si arricchì di un nuovo tipo di vetro, l’avventurina o pasta stellata denominazione giustificata dal fatto che tuttora resta un’avventura la sua manifattura caratterizzata da piccoli cristalli di rame metallico a riflessi lucenti. Per il resto il tempo scorreva affinando tecniche e forme già note.

E il declino proseguì anche nel settecento, complice un’agguerrita concorrenza e una situazione politico economica di estrema incapacità ad adattarsi alle novità del secolo, da parte di una struttura millenaria come quella della Repubblica Serenissima. Ma la voglia e le idee nelle fornaci muranesi non sembravano seguire questa linea e, quasi ad esorcizzare il momento, la produzione muranese settecentesca si tinse di un tripudio di colori nei bicchieri, nelle caraffe, nelle alzate, e la felice intuizione di dotare gli specchi di una cornice di vetro, fece di questo componente l’oggetto principe dell’arredo settecentesco.[19] In questo periodo, la personalità di maggior spicco nell’isola di Murano fu sicuramente Giuseppe Briati. Compare come paron de fornasa nel 1724 e si contraddistingue, oltre per essere deputato del Comune di Murano e avere l’onore di vedere il suo stemma nelle oselle[20] di quegli anni, per il privilegio ottenuto dal Consiglio dei X sulla lavorazione di cristallo finissimo coll’obbligo di allevare persone dell’arte per apprenderle. A causa dell’invidia che aveva suscitato, tale privilegio mise in pericolo la vita sua e dei suoi lavoranti ed egli ottenne, unico caso, di spostare la sua produzione in città. Fu in questo periodo che portò a termine la sua straordinaria invenzione delle chiocche, antica denominazione dei lampadari di vetro veneziano e muranese. L’innovazione trovò consacrazione in una nota di Carlo Gozzi: Giuseppe Briati, muranese, benemerito inventore privilegiato in Venezia della pasta di terso cristallo e valente fabbricante di infinite manifatture di detto cristallo, e particolarmente delle ciocche magnifiche da illuminare le sale de’ Gran signori, i Teatri, e le vie in occasione di solennità. La nota continua con un’esortazione a seguire per la via, della bellezza, della raffinatezza, delle trasparenze eteree che caratterizzavano l’opera dei maestri vetrai muranesi arrivando ad affermare che Giuseppe Briati ha fatto vedere che possiamo, volendo, non solo eguagliare ma superare le altre nazioni.[21]

Ed è il suggerimento che tutti i maestri vetrai muranesi accettano tutti i giorni nella loro sfida di esprimere appieno la loro arte millenaria fatta di grazia delicatezza, sudore e fatica, ma soprattutto di orgoglio di far parte di una storia.

 

 

 


[1] Mariegola o Madre Regola era uno statuto dei diritti e dei doveri con la quale la Repubblica Serenissima normava l’ambito di intervento e la gestione delle arti e mestieri presenti in città. Naturalmente la concessione di tale carta da parte del Doge sanciva la valenza economica e sociale della corporazione oggetto di tale attenzione.

[2] A. DORIGATO, L’Arte del vetro a murano. Editrice Arsenale, Verona 2002. Pag.14

[3] Il Maggior Consiglio era il cuore della politica veneziana, massimo organismo deliberativo al quale anche il Doge sottostava. Era composto da cittadini eletti sino alla “serrata” del 1309 con la quale si sanciva l’accesso esclusivo della classe nobiliare alla gestione dello Stato della Serenissima.

[4] Attuale Rialto

[5] G.TOSO, Il vetro di Murano. ARSENALE, verona 2000. Pagg. 9-10.

[6] Ibidem. pag. 40.

[7] A. FUGA, Il vetro. Le tecniche e i materiali pag. 17 in A. BOVA, L’avventura del vetro dal Rinascimento al Novecento tra Venezia e mondi lontani. Skyra, Milano 2010

[8] Ciottolo quarzoso che era un succedaneo vetrificante migliore della sabbia provenienti dal greto del fiume Ticino

[9] Questo termine compare per la prima volta nel 1347 e diverrà d’uso comune in tutta Europa per designare il primo prodotto ottenuto dalla miscela di silice e fondente per ottenere il vetro. G. TOSO, Il vetro… cit. pag. 39. Più precisamente la fritta era un prodotto di prefusione di una miscela di “cogloli” frantumati e macinati, e di cenere.  Questa miscela, disposta su un ripiano del forno detto “calchera, in sei ore ad una temperatura di 700°C, si trasformava in una massa solida incoerente chiamata appunto “fritta”. T. TONINATO, la sezione tecnologica in AA.VV, Mille anni di arte del vetro a Venezia. Albrizzi Editore, Venezia 1982. Pag 12. Questo tomo è il catalogo dell’omonima mostra svoltasi a Venezia nel Palazzo Ducale e Museo Correr 24 luglio – 24 ottobre 1982.

[10] Ibidem. Pag. 10.

[11] G. TOSO, Il vetro… cit. pag. 46

[12]R.  BAROVIER MENTASTI, La nascita del cristallo in  AAVV, Trasparenze e riflessi. Il vetro italiano nella pittura. Editoriale Bortolazzi Stei, per conto della Banca Popolare di Verona e Novara, Verona 2006. Pagg. 35-36.

[13] L’assegnazione di tale coppa ad Angelo Barovier avvenne a cavallo fra l’ottocento e il novecento quando alcuni studiosi mal interpretarono il ruolo del maestro vetraio ritenendolo un decoratore a smalti. A. DORIGATO, L’arte del vetro a murano. Cit. pag. 38

[14] A. GASPARETTO, Dalla realtà archeologica a quella contemporanea. cit. Pag. 22-23.

[15] [15] L. ZECCHIN, Vetro e Vetrai di Murano. Arsenale editrice,  Verona 1987. pag 233.

[16] Privilegio o grazia o favore era una sorta di copyright per la produzione in esclusiva che la Repubblica Serenissima concedeva per un certo numero di anni a chi portava qualche cosa di innovativo.

[17] R. BAROVIER MENTASTI, La galleria dei 99 – LA RAGNATELA. NOS. Verona 2001, pagg. 12-15

[18] G.TOSO, Il vetro…. Cit. pag. 69

[19] Ibidem pag. 121

[20] Moneta\medaglia

[21] Ibidem pagg. 122-128

 

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